Una notte con Lucifero
Una notte con Lucifero (Sverginata da Lucifero) – di Giovanna Esse
La persona che entrò era notevole. Me ne accorsi immediatamente.
Mentre le due ragazze abbozzavano un inchino, io, non sapendo che fare, abbassai la testa, sperando che venisse interpretato come un saluto ossequioso.
Il “Signore” si fermò e si guardò intorno, come se venisse da lontano e cercasse per un attimo di raccapezzarsi. Era vestito di grigio; un abito dai riverberi metallici di un tessuto che non conoscevo. Anche la camicia era antracite, ma con qualcosa di luminoso nella stoffa: con l’effetto della luce, l’uomo sembrava circondato da un leggero alone, appariva come leggermente “sfocato”. Non saprei descrivere meglio la sensazione che mi dava.
Avanzò e si arrestò di fronte a me senza guardarmi negli occhi, mentre una delle ragazze si precipitava a mettergli a disposizione una poltroncina. Ne approfittai per guardarlo meglio… Era un anziano, ma dritto e possente. Sembrava più alto di quanto già fosse, a causa della postura che, così come l’abito “metallizzato” e il grosso bastone nero, ricordava un guerriero di quelli che si vedono nei musei. Sedette e, a quel punto, mi scrutò con due occhi completamente neri e profondi come un abisso.
Involontariamente, mi spostai, a disagio. Quello sguardo triste e antico, senza fondo, mi attraversava letteralmente l’anima, facendomi temere di non farcela a sostenerlo. Il “Signore” tormentava con le dita la testa di barboncino, forse d’argento, posta come pomo al suo bastone.
– Giovanna, vero? – domandò in uno strano italiano, come quando parla uno straniero. La voce era calda e bassa, e aveva un che di carezzevole, di paterno, che mi strinse il cuore.
– Sì, signore… – risposi, pronta a sciogliermi davanti a quell’ essere possente. Ad uno che mi parlava, così avrei potuto e voluto dire tutto, raccontare tutta la mia vita, anche i segreti più nascosti che nemmeno mia madre conosceva, tanto ero certa che lui già leggeva in me…
Sorrise sinceramente: – Brava, ragazza. Hai pensato una cosa giusta. – senza ragione e come un ebete, ero lieta di averlo fatto sorridere. Mi sarei messa anche a scodinzolare per la gioia.
– Giovanna, – chiese, tornando serio – tu sai chi sono?
Entrai nel panico: non sapevo cosa rispondere. Qualcosa dal profondo mi suggeriva misteriosamente che quello potesse essere il Diavolo in persona, ma mi vergognavo a pensarlo… La mia mentalità moderna era troppo ostile e impreparata a certi concetti.
– Diavolo, Satana, – disse lui guardando nel vuoto – Woland, Behemoth, Diabolo… Legione, Belzebù… Quanti nomi… Sono solo parole trasfigurate dalla storia, mia cara. Io non ho un nome comprensibile per i vostri canoni… Io rappresento un Principio, identifico un’antitesi… Ma lasciamo perdere, per ora. Figlia, tu puoi chiamarmi “Signore”, come fanno tutti qui – e indicò intorno vagamente.
– Volevo vederti subito, perché i tempi stanno cambiando velocemente… È tanto tempo che manco e volevo capire, di persona… E quale cuore meglio del tuo, giovane e fresco, mi può svelare i sentimenti veri di questi tempi?
A quel punto, con galanteria inattesa chiese: – Posso chiedere la tua ospitalità per questa sera?
Le due donne ebbero un attimo di sconcerto, ed io stessa non sapevo cosa dire…
– Ma, “Signore”, certamente… Però io, vedete, non sono nessuno… Veramente, non so cosa fare, perdonatemi. – ero confusa, – Cosa devo fare? Ditemelo, e sarò lieta di fare del mio meglio…
Sorrise nuovamente, ma non della mia ingenuità.
– No, no, Giovanna. Niente cerimonie. Le mie fedeli ancelle penseranno a tutto, non è vero? – E si rivolse alle due vallette, – Conto su di loro, signore, per assaggiare qualcosa che valga la pena di questo viaggio… – e concluse – e del vero vino italiano, degno di questo nome!
Mentre le donne scattavano all’unisono, allontanandosi per soddisfare i desideri del “Signore”, questi si concentrò nuovamente su me.
– Cara, giovane speranza… Vuoi aiutarmi a mettermi a mio agio? – e, poggiandomi una mano sulla spalla, mi condusse in camera da letto.
Lo aiutai a togliere le scarpe, le calze e gli abiti. Quando, senza alcuna vergogna, gli abbassai i pantaloni, mi accorsi che non portava mutande e che tra le gambe gli pendeva una specie di clava, morbida e attrattiva. Lui non notò (o finse di non notare) il mio sguardo curioso ai genitali.
Indossò un’ampia vestaglia nera, quasi un mantello, e delle pantofole di seta grezza, lavorate con fili d’oro di fattura tipicamente araba.
Questo abbigliamento era già lì, in bella vista su uno sgabello, nonostante avrei potuto giurare che prima non lo avevo notato per nulla.
Intanto, nella sala, alcuni camerieri a seguito delle ancelle apparecchiavano una tavola sontuosa, con tantissime pietanze, presentate in un modo mai visto prima, per me, ed estremamente invitanti.
Sedetti al tavolo col “Signore”. I camerieri ci lasciarono e le ragazze servivano. Allora, non volli essere da meno e cercai di rendermi utile, per quanto potevo.
– Una perfetta padrona di casa. Brava! – disse soddisfatto il “Signore” – Lo è chi si preoccupa personalmente dei suoi ospiti.
Visto che le donne avevano già approntato dei piatti con alcuni assaggi, presi il vino rosso da un decanter e lo versai al mio illustre ospite.
– Grazie, Giovanna, – apprezzò, – adesso ti svelo un segreto: non vedi in giro la bottiglia… Perché questo vino l’ho fatto portare io stesso. È Falerno, proviene direttamente dalle cantine imperiali di Cesare.
Pensai che mi prendesse in giro… Per quel poco che avevo studiato, beveva un vino vecchio di 2000 anni… Impossibile!
– Non sopporterei del vino delle vostre terre inquinate di oggi… – aggiunse – Sono oltre due secoli che gli uomini appestano l’aria e la terra di questo pianeta.
Piluccai tra quelle delizie e assaggiai il vino: era delizioso e profumato, delicatamente speziato.
Il “Signore” volle sapere molte cose, chiacchierando amabilmente e facendomi sentire “grande”. Le altre donne ascoltavano compiaciute, finché lui si alzò e, maestosamente, si spostò su una poltrona del salotto.
– Ora io riposo, mentre Godra e Sonia ti preparano per la notte. – disse – Ne vedrai di “cose nuove”, ragazza mia! – e, così dicendo, trasse da una tasca invisibile del mantello un piccolo libro scuro. Aggiunse, quasi sussurrando: – Prima il dovere, poi il piacere. – e non si curò più di noi tre.
Entrarono di nuovo i servitori che, rapidamente, sparecchiarono e portarono via tutto.
Le ragazze mi si avvicinarono sorridenti, come se volessero scherzare con me… Continuavano a non profferire una sola parola ma, a gesti, si facevano capire. Volevano che bevessi un bicchierino di un liquore rosso e denso… Ma per me il vino era già abbastanza.
Dalle loro moine, capii che ero praticamente obbligata a bere: lo feci. Non era liquore, ma una specie di sciroppo medicinale che mi fece venire pesantezza delle membra quasi immediatamente. Godra fu lesta a piazzarmi sul divano prima che cadessi. Mi stese le gambe e mi sistemò, mentre Sonia si recava discretamente dal “Signore” per avvertirlo di qualcosa. Lui mi guardò con attenzione da sopra le pagine del suo libricino.
– Adesso, amica mia, sentirai una piccola puntura… È assolutamente necessario. Fidati di noi, e di Iside…
Si alzò e, lento e solenne, si avvicinò. Le due assistenti si piazzarono ai suoi lati, seminude. Avevano solo i collant, non indossavano le mutandine, e una mantellina ricamata sulle spalle.
L’uomo in nero staccò la testa di cane dal suo bastone e vidi, quasi nel dormiveglia, che nascondeva un piccolo punteruolo. Porse a Sonia una fiaschetta, dalla quale la ragazza trasse delle gocce nere e oleose. Con quelle cominciò a massaggiarmi la fronte e le tempie. Nonostante l’anestetico, ero terrorizzata: avevo capito che la puntura sarebbe stata in testa ma non riuscii a ribellarmi. La musica di sottofondo che permeava la stanza svanì e un silenzio di tomba si impadronì dell’ambiente.
Il “Signore” intonò una specie di litania, a voce bassa:
Bella Dea col dardo,
Dea della caccia e dei cani fedeli,
Tu che vegli con le stelle
mentre il sole va a dormire,
Tu che con la Luna in fronte
squarci il buio con vista acuta,
Regina della notte,
Dea del cacciatore:
dona la vera vista alla tua figlia
Giovanna.
Regina della notte,
Dea del cacciatore:
dona la vera vista alla tua figlia
nuova e antica, Giovanna.
Così dicendo, con precisione e determinazione, mi infilò lo spillone nel mezzo della fronte. Il dolore fu potente, ma durò solo pochi istanti; lesta, si avvicinò Godra e, appena lo spillone fu estratto, mi pose sulla fronte delle garze con dentro del ghiaccio.
Le ragazze mi aiutarono ad alzarmi. Ero spossata e mi avvicinarono allo specchio… Trasalii: al centro della fronte, una pallina grossa come un rosso d’uovo si era formata nella carne e si muoveva roteando. Mi venne da rimettere, ma il “Signore” mi pose la mano sulla bocca.
– Non temere, Giovanna. Tra pochi minuti, tutto ritornerà normale. – disse – Però, sappi che ti è appena stato donato un grande privilegio; la Dea ti ha benedetta e il tuo Terzo Occhio è stato sbloccato.
La musica diffusa dall’albergo riprese discreta. Le ragazze regolarono le luci ponendo tutto in penombra. Andai in bagno a sistemarmi, a riprendermi… Quando tornai, il divano era stato spostato di fronte al letto e lì mi fecero sedere.
La pallina sulla fronte era scomparsa e, dopo la confusione psichica, ricominciavo a prendere consapevolezza di me.
Il “Signore” si era sistemato comodamente sul grande letto, con indosso il suo mantello semi aperto, il fisico possente, il pene abbandonato tra le gambe, a riposo. Piluccava con gusto dell’uva.
– E ora, il piacere… – disse con poco entusiasmo, e batté una sola volta le mani.
Come se si fondessero due statuine, le due ragazze in collant e mantellina presero vita, rinunciando al loro aspetto efficiente e quasi militaresco. Lentamente e languidamente, seguendo la musica in maniera perfetta, presero possesso dello spazio tra il letto e il divano dove mi avevano sistemata.
Ogni dolore era passato e stavo benissimo: ero tranquilla, in pace col mondo e non ricordavo più nulla in particolare. Ero lì, sorniona… Nel benessere e nel piacere, e me la godevo. Forse, già pregustavo che quella serata sarebbe stata indimenticabile per me.
Le due donne danzavano senza seguire alcun passo particolare, ma la perfetta sincronia dei loro movimenti con i “tempi” della musica mozzava il fiato. I loro corpi torniti, illuminati nella maniera più appropriata, donavano uno spettacolo delizioso ed eccitante. Sempre danzando, iniziarono a spogliarsi, completamente, dedicandosi l’una a denudare l’altra. Trasmettevano un desiderio eccitante anche in chi guardava: si esploravano con libidine, i collant erano scivolati lenti sulle lunghissime gambe, le mantelline cadute delicatamente dalle spalle scoprendo i seni spettacolari e diversi. La bionda aveva una misura notevole e prorompente, l’areola era grande, circolare, di un roseo scuro che attraeva la lingua verso i capezzoli, grossi come funghetti marroncini, da succhiare a sazietà come piccoli peni.
L’altra, con il corpo intagliato come una modella d’ebano, era sottile e nervosa, più mascolina nel tipo, e i suoi seni erano più piccoli, con capezzoli duri e piccini come bottoncini rosa cupo.
Adesso che non avevano più niente addosso, si poteva ammirare ogni parte del loro corpo: il “Signore” apprezzava lo spettacolo e anche il suo cazzo, grosso e adagiato in mezzo alle gambe, dava segni d’inquietudine, ballonzolando quando la danza diventava più lasciva e perversa.
Ora, mimavano un atto sessuale ballando: la bruna dagli occhi a mandorla, a gambe strette, menava il bacino verso il sedere della bionda che era girata, e vi si strusciava; i seni della donna, sotto i colpi, sbattevano nella penombra a suon di musica.
Come una puttana da casino, girò per la stanza mostrando il culetto e la vulva a noi, gli spettatori: la sguaiatezza dei gesti involgariva volutamente lo spettacolo, rendendolo sempre più eccitante. Infatti, la mia figa era ormai bagnata e io guardavo arrapata il duetto di assatanate.
Ora toccava alla “tibetana” dare spettacolo. Mentre la bionda si riprendeva per restituire la “mortificazione carnale”, sempre danzando come una professionista, l’altra mimava paura e sgomento. Il modo civettuolo di una donna per dire che ci sta. Incastrata infine alla parete dalla sua cacciatrice, la donna mimò la pudicizia e la sua rassegnazione a subire il sesso. Si mise davanti alla bionda, con un braccio intorno al seno, e l’altro sulla pancia, come se volesse proteggersi il pube. Ma la ragazza fu implacabile e, al ritmo di una musica quasi tribale, da dietro, a scatti, le spingeva il monte di venere tra le natiche, mentre l’altra, davanti, cercava di non aprire le gambe, giocando in difesa.
Bellissimo spettacolo! Pur essendo donna, non riuscivo a staccare gli occhi da quelle due e dal loro pube… Poi, la ”tibetana” mi rese per un attimo perplessa: danzava da ferma e non apriva le cosce. Il pube era disegnato da un triangolo di pelo bruno e perfetto, ma giù, scendeva liscio e piatto… Ma dove le cominciava la figa?
La bionda, voluttuosa, le girò intorno e, con gesto di conquista e di vendetta, la costrinse a mostrarsi al “pubblico”, aprendole le gambe fingendosi violenta e… La svergognò. Le gambe spalancate, le ginocchia leggermente piegate, saltellando sui talloni e girando su sé stessa, la ragazza mostrò il suo segreto: un lungo pene floscio che le dondolava tra le cosce aperte.
La bionda, uniformandosi al suo ritmo, da dietro lo prese con due mani e iniziò a mungerlo, finché il cazzo della “ragazza?” prese vita e si indurì, come un’asta di bandiera puntuta.
Un cazzo strano, con uno scroto appena accennato e le palline piccine, fissate all’asta turgida, eppure… Eppure lo avrei preso in bocca con tutto il trasporto, specialmente adesso che ero eccitata e lei-lui era tutta lucida di sudore.
Applaudimmo quelle due fantastiche ragazze. Non avevo mai visto niente di tanto bello e sensuale. Anche loro si erano evidentemente eccitate e fecero piccoli inchini, sorseggiarono qualcosa dai loro bicchieri e si asciugarono con degli asciugamani di lino. Poi tornarono in posizione di attesa, come due cani fedeli, ma il “Signore”, che aveva ormai il cazzo gonfio, le chiamò a sé. Subito si precipitarono sul letto, mettendosi ai suoi lati, lasciando che lui le esplorasse tranquillamente con le mani.
Con gesti delicati e sapienti, lui impartì il “ritmo” al rapporto: fece sì che la bruna, inginocchiata sul letto, presentasse come un trofeo il pene sottile. Intanto la bionda, chinata su di lui, gli massaggiava la pancia con le grosse zinne deliziose, mentre faceva un pompino all’efebo.
Al “Signore” il cazzo s’induriva, tanto da sembrare un tronco d’albero, pieno di vene e scuro come un tizzone; sotto, la grossa sacca con i coglioni faceva venire voglia di succhiargliela. Intanto, toccava il culo a tutt’e due e, con le dita, esplorava gli ani morbidi e arrendevoli.
Guardavo rapita la scena ipnotica ed eccitante, ma immaginai che, ancora una volta, avrei dovuto affidarmi alle mie dita per raggiungere l’orgasmo…
Era strano: sia nella vita da ragazza di provincia, sia adesso che navigavo nel vizio e nei piaceri, non riuscivo a farmi chiavare decentemente… Odiai la mia remissività e la mia scomoda verginità.
Ora le compagne si erano abbassate e facevano un bocchino a due al “Signore”, facendoglielo intostare più che mai. Finalmente, lui si alzò e si inginocchiò sul letto per diventare più attivo. Volle a suo favore la bionda che si mise a quattro zampe e si fece penetrare immediatamente, aiutata dall’ermafrodita.
Mentre chiavava estasiato guardando il soffitto, il “Signore”, con una mano possente, attirò dietro a sé la ragazza col pene lungo e sottile. Quella capì i suoi desideri e gli leccò il culo divinamente. Il “Signore” accettava estatico quel lavoretto, fermo e col cazzo bloccato nella bionda. La bellissima ragazza si sollevò e puntò il cazzo tra le natiche del maschio che, molto poco virilmente, con lentezza esasperante, se lo fece infilare tutto nel culo.
Quando il suo ano si fu rilassato, cominciò ad attirare dalle chiappe la giovane, per farle capire che doveva pompare a tutto spiano.
Allora vidi la scena più eccitante della mia vita: l’efebo aveva un cazzo lungo come un serpente e penetrava come una trivella nel culo del vecchio. I suoi affondi tra le natiche venivano ricevuti e goduti, mentre si propagavano in botte tremende nella figa della bionda che, a pecorina, si teneva la bocca sulle braccia per non urlare di piacere. I cazzi sembravano pistoni ed entravano ed uscivano dai buchi, martellando in modo forsennato.
Improvvisamente, si fermarono: la ragazza tibetana, tremando sulle gambe, mi fece cenno di avvicinarmi. Io non mi aspettavo di venire chiamata, ma non dovette ripetermi l’invito.
Mi fece capire che dovevo mettermi sotto di loro, supina, così vidi la scena da un’angolazione ancora più arrapante. Avevo in primo piano il cazzo enorme del “Signore” che era infisso nella ragazza fino ai coglioni e non la mollava.
La tibetana, invece, con lentezza ricominciò a incularselo: tirava fuori quel cazzo sottile per quasi un palmo, e poi lo infiggeva di nuovo, come una lunga spada, nel culo del vecchio uomo che si dilatava per farsi sfondare. Dopo una decina di colpi ritmati e precisi, la giovane si fermò, vibrando in quel culo aperto. Ansimando e col battito a mille, l’efebo dalle forme perfette svuotava completamente i coglioni nel culo del vecchio “Signore”. Mentre lui, invece, si ritrasse dalla figa della bionda: aveva il cazzo più grosso, nodoso e duro che io potessi mai immaginare di vedere.
Probabilmente, si era fermato per non venire a sua volta.
Restarono tutti fermi, sopra di me che vedevo tutto dal di sotto, e che facevo forza su me stessa per non toccarmi e per non godere. Era difficile evitare di infilarmi le dita nella fessa.
La bionda si accostò, mi offrì la sua vulva bagnata e slabbrata dalla possente penetrazione ricevuta, ma era ancora lontana dal mio viso. Io ero sotto il “Signore”, mentre dal culo, appena la fanciulla glielo sfilò, lentamente colava la sborra della giovane, finendomi direttamente in faccia e sulle labbra.
Poi, l’uomo si scrollò di dosso la ragazza col lungo pene e si distese sul letto, tenendosi il cazzo in mano. Solo allora potei soddisfare la bionda, rimasta in attesa, leccandole la figa e succhiando i suoi liquidi con infinito piacere.
– Ora tocca a te, Giovanna. Le ragazze ti aiuteranno. Vieni, piccina… –
mi disse con voce eccitata il boss, – Preferisco deflorarti nell’intimità di questa stanza che gronda piacere… – Poi, con gentilezza: – Tu lo vuoi?
Ero certa di non dovere né potere rispondere di no; in quei giorni, il mio destino era praticamente già stato scritto e mi pervadeva come un’onda a cui non potei resistere.
– Ne sarei onorata, mio “Signore”, e ne ho grande desiderio!
Vidi che era soddisfatto della mia risposta.
Intanto, mi ero completamente ristabilita. La mia fronte si era stabilizzata, ogni dolore era passato e solo un piccolo puntino rosso, al centro, mi ricordava la ferita che mi avevano inflitto.
Mi avvicinai al lettone in modo sinuoso ed intrigante, mi tolsi la mantellina e lasciai al loro posto le calze nere, che di sicuro mi avevano fatto indossare per rendermi più intrigante e sexy. L’omone sul letto era ancora infoiato, mentre le ragazze ne erano scese e mi aspettavano, invitanti coi loro corpi nudi e sovreccitati.
Ancora in piedi, cominciarono ad accarezzarmi e a baciarmi. Mi stringevano e prendevano confidenza col mio corpo. Senza che nessuno me lo ordinasse, volli regalare soddisfazione al mio ospite, e così mi abbassai sul letto con la testa e spalancai a dovere le labbra per riuscire a prenderglielo in bocca. Ancora una volta, lui apprezzò e mi accarezzò i capelli, sfiorandomi l’orecchio con le dita. Le ragazze non perdevano tempo e, a turno, mi slinguavano la fighetta con una maestria mai provata. Mi sollecitavano i fianchi e i seni, tondi e perfetti grazie all’età. Come eseguendo un rituale, si misero ai mie lati e fecero in modo che io salissi sul letto: mi fecero preparare accovacciata sul bacino di quello strano essere dall’enorme fallo. Mi morsi il labbro, immaginando che perdere la verginità, con un cazzo così grosso e nodoso, di certo mi avrebbe fatto male.
Mi presero per le ascelle e mi poggiarono la fighetta sull’enorme glande a forma di fungo. Io mi appoggiavo sulle dita dei piedi e, con le mani, mi sostenevo sul petto possente di lui. Le nostre due sorprendenti ancelle mi tenevano in alto, senza sforzo, così anche per me iniziò una vera danza sul cazzo del “Signore”.
Aiutata dai movimenti rotatori e sussultori che mi imprimevano, giravo sulla cappella come fossi poggiata sulla testa di un perno di carne. Il grosso bastone mi seguiva docile, catturato dalle grandi labbra; il glande rosso e liscio era talmente spropositato che, inserito in vagina, veniva risucchiato a ventosa dalla mancanza di aria tra le nostre carni.
– Domani notte, – disse il “Signore”, arrapato e pronto a farmi del tutto – ci sarà una grande festa, il Sabba, e ripeteremo per il pubblico questa operazione… Ma, stanotte, il piacere sarà solo nostro, va bene?
La voce mi uscì tremante: avevo troppa voglia per dire di no.
– Siiii… – dissi languida – Fatemi, per favore, mio signore, sfondatemi… adesso!
Tutte le contorsioni e tutti gli aiuti delle giovani, il continuo lubrificare della mia vagina arrapata, non sarebbero mai riusciti a vincere, senza spaccarlo,
la resistenza del mio imene virginale. Il mio velo di carne se ne stava lì, imperturbabile, come una trafila di acciaio, come un mastino di guardia… Solo con la forza e con il dolore poteva essere vinto.
Come un tuffatore che si decide a superare una prova terribile, ma necessaria, guardai negli occhi le mie collaboratrici erotiche e feci segno di sì con la testa. Poi, chiusi gli occhi e serrai il labbro inferiore tra i denti.
Satana capì e si inarcò, rendendo la sua arma più offensiva che mai. Contemporaneamente, le due ragazze mi calarono di peso sul cazzo che sembrava un obelisco.
Il dolore lancinante mi attraversò la schiena e arrivò tremendo fino al mio cervello… Ma non gridai. Ce l’avevo tutto dentro e mi aveva sfondata, espugnata… Come un ariete. Era scivolato prepotentemente in vagina, senza curarsi dell’ostacolo e spaccandomi la carne delicata.
Dalla figa dolorante, scivolò giù un rivoletto di sangue vivo, e dai mie occhi scesero alcune lacrime. Entrambi i miei liquidi, intrisi di goduria, vennero leccati dalle donne che mi avevano sacrificata.
Non me la sentivo ancora di pompare sul grosso pene, ma il piacere di averlo tutto dentro superò rapidamente ogni ritrosia.
Dopo alcuni minuti di adattamento, lentamente, cominciai a chiavare, cavalcando su e giù, stringendo il petto del mio cavaliere superdotato che riceveva con soddisfazione lo sfregamento cadenzato dei miei genitali sui suoi.
Per farlo godere di piacere ancora più intenso, la ragazza col bastone mi tradì. Salì sul letto e si posizionò alle mie spalle. Io mi rassegnai e volli provare quell’ennesimo piacere proibito, forse l’ultima frontiera del piacere sensuale. Mi chinai in avanti verso il “Signore” che mi teneva sospesa per i seni, circondandoli completamente con le sue grosse mani, ed offrii il sedere all’efebo dal lungo pisello. Lei/Lui ne approfittò rapidamente.
Il mio culetto era bagnato dagli umori della vagina e dal sangue perduto con la deflorazione, così si fece strada ricevendo ben poca resistenza, allargando facilmente il mio sfintere, arrendevole e voglioso. Il cazzo di lei non era spesso, però era lungo, e poiché lo infilava decisamente tutto nel mio culo, mi “pungeva” quasi alla fine del mio budello anale, facendomi sussultare ad ogni infilatura.
Non mi fermai, accettai i due cazzi con spirito di sacrificio e tanta, ma tanta goduria: ero alle stelle, non sentivo più dolore, non sentivo più nulla, solo il piacere di sentirmi riempita come un otre. Ero gonfia di cazzi che, non contenti, mi scopavano dentro incessantemente.
Senza un lamento, ma tirandomi per i fianchi, il “Signore” sborrò nel profondo della mia fica. Sentii i fiotti precisamente, mentre saettavano nell’utero e nella pancia… Non lo potrò mai dimenticare. Mai sborrata avrei più identificata così perfettamente, goccia per goccia: perché quel seme era gelido come il ghiaccio, ed io lo sentivo dentro, perfettamente. Il “Signore” mugolava, forse e al contrario, lui apprezzava il mio calore vaginale in quell’amplesso unico e irripetibile.
Anche la ragazza venne poco dopo nel mio culo, abbracciando i miei seni e spingendomi con i suoi dietro la schiena. Non so dire perché, ma fui felice di darle tanto piacere, come se le volessi bene.
Il cazzone di Satana, nonostante fosse venuto da alcuni minuti, non si ritirava dalla mia fregna. Allora decisi di pensare anche a me, finalmente. Spinsi fuori dall’ano pieno il cazzo di lei e mi voltai su me stessa, senza far uscire il grosso perno dell’uomo sotto di me.
Mi accovacciai sulle mie ginocchia e misi le mani sulle sue. Le ragazze, spossate, si misero ai fianchi del “Signore”. Sapevo che tutti e tre, alle mie spalle, si godevano lo spettacolo del mio culetto ancora aperto che perdeva sperma lentamente. Infatti, lo sentivo colare, caldo e vitale. E vedevano anche la radice del cazzone di lui, che si perdeva nella mia figa che se lo lavorava, fasciante come un guanto.
Feci del mio meglio per essere sensuale e lasciva, e per dare piacere con lo spettacolo esuberante delle mie intimità offerte ai loro sguardi eccitati.
Ero lì, impalata come una polena, nuda e bellissima, installata sul puntale di una nave del passato. Rimasi ferma, immobile, col grosso cazzo piantato fino alla radice. Un leggerissimo bruciore mi ricordava di essere stata una “vergine”, fino a pochi minuti prima.
In quegli ultimi giorni, avevo imparato a fare tutto: pompini, seghe e inculate. Avevo anche fatto l’amore lesbico… Ma avercelo in grembo, sentirsi un cazzo di quell’entità tutto nella figa, era ben altra cosa.
Seduta a cosce aperte sul Diavolo in persona, mi feci un lungo ditalino, mentre le ragazze, comprensive, mi carezzavano le natiche e la schiena.
E così, lentamente, formando un monumento osceno e depravato, finalmente me ne venni anch’io.
Quello che hai appena letto è solo un breve estratto del romanzo erotico erotico “Una vergine al Sabba”. Un racconto che coniuga, con sapienza ed eleganza, una trama magicamente originale ed avvincente con tantissimi momenti di sesso senza censure, esplicito, corrotto, turpe, osceno e dissoluto.
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